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INDICE DEL N. 5

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E D I T O R I A L E
anno II, n. 4, marzo-aprile 2010

Il nostro tedio quotidiano

Spleen (mal di milza), malaise, saudade, atrabìle, tedio, uggia: i vocaboli si sprecano per esprimere la sensazione che oggi prova chi s’ispira a princìpi grosso modo conservatori allorché si pone in osservazione — o semplicemente sperimenta, se non subisce, sulla propria pelle di uomo contemporaneo — del mondo che ci circonda. "Tedio", a norma di vocabolario Treccani, è quella "sensazione di noia grave, profonda, e in genere dolorosa" oppure di "stanchezza, insofferenza, soprattutto nell’espressione "t. della vita"", mentre "uggia", a sua volta, esprime anch’esso "noia, tedio, sensazione di fastidio e di irrequietezza [...] fastidio, molestia".

Ebbene, come altrimenti si può descrivere quel che si prova di fronte a questa condizione in cui tutto si sfrangia, tutto perde contorno, tutto si corrompe, tutto s’isterilisce? davanti a tante, a troppe dimissioni dai doveri, a tanto anonimato nell’agire, a tanta inerzia? Si ha l’impressione che l’organismo civile del nostro Paese e dei Paesi simili al nostro spinga sempre più forte, quasi come nelle paoline "doglie del parto", per crescere, ma questa pressione venga costantemente e pervicacemente frenata da un qualcosa d’indefinibile, che opera invece, scaltramente, cinicamente, con tutto il peso del controllo che esercita su una parte rilevante del corpo sociale, per conservare, per congelare, per ossificare, per impore paradigmi non solo sbagliati in essenza, ma anche "condannati" — poco hegelianamente — dalla storia.

Sarebbe ingiusto dire che tutto va male, perché si svaluterebbero così gli sforzi di molti per migliorare o comunque per testimoniare che vi è qualcosa di più alto e di meglio rispetto all’oggi.

Ma sarebbe altrettanto errato e ingiusto credere e far credere che tutto vada per il meglio e che non ci troviamo — come è mia, e non solo mia, fermissima convinzione —, in un frangente difficile come non mai e ostile a un ordine di vita secondo ragione e tradizione, in una crisi sempre più onnipervasiva, che macina ogni giorno frammenti di bene, di bello e di buono che residuano oppure che si rigenerano, in forza della vita stessa, dalla libertà umana. Una crisi non accidentale e non passeggera, una crisi che, pur con numerose metamorfosi, contrassegna la contemporaneità, quando non tutta l’epoca moderna: anzi, la modernità e, a fortiori la cosiddetta post-modernità, si "nutre" di crisi, se non è essa stessa in essenza, come sostiene Jean Baudrillart, una crisi tout court.

Questa condizione e la consapevolezza che l’Occidente la vive non è recente e ha trovato diverse formulazioni, di alcune delle quali mi sono servito negl’interventi dei numeri scorsi.

La condizione generale dell’Occidente, dell’Europa e del nostro Paese in particolare si può paragonare oggi a quella di un organismo malato, afflitto da un morbo plurisecolare di auto-annientamento, il quale contemporaneamente subisce attacchi dall’esterno e dall’interno da parte di nemici sempre più potenti e aggressivi. Dopo il 1989, infatti, alla crisi sempre più marcata dell’ethos europeo e cristiano si è venuta ad assommare la ripresa dell’aggressività dei soggetti periferici, in particolare dell’islamismo politico, del colosso cinese — che a molti pare aver intrapreso una guerra "asimmetrica" contro le potenze occidentali —, della pressione migratoria del "sud del mondo", che l’epoca dei blocchi ideologici contrapposti — miracolosamente esauritasi con l’implosione del sistema imperiale sovietico e con l’imprevista vittoria dell’Occidente libero — aveva momentaneamente relegato sullo sfondo. Dico "ripresa" perché l’Europa, fin dall’epoca tardo-romana, ha conosciuto ripetute situazioni di assedio e d’invasione: uno storico svizzero a me non poco caro, Gonzague de Reynold — ne accenna Giovanni Formicola in questo stesso fascicolo —, ne ha enumerate e descritte addirittura diciotto!

L’amico Giovanni Cantoni ha usato di recente una bella metafora, paragonando la nostra situazione di oggi a quella del "Re Magagnato", personaggio del ciclo del Graal: un re simbolicamente ferito da un colpo di lancia scagliato a tradimento, la cui ferita non si rimargina mai: un re perennemente afflitto da molti mali che si riverberano sulla sua terra, desolandola. Un re che, nonostante le sue menomazioni, deve combattere contro nemici numerosi e feroci che lo assediano da ogni parte.

Oggi, nel venir meno del ruolo-guida della potenza americana, nella ininterrotta e sempre più audace ostilità dell’islamismo estremista, nella perdurante auto-insignificanza delle potenze europee, nel ritorno imperiale della Russia, nell’ascesa formidabile e inarrestabile dell’ancora largamente incompreso totalitarismo cinese, dell’emergere di potenze subcontinentali come l’India, l’Iran, la Turchia, con un’America Latina sempre più ostile all’Occidente e flagellata dal narco-crimine, con un’Africa sempre più vicina al collasso, quello spazio che condivide un passato e forme di civiltà in cui ancora si avverte il residuo delle ripetute evangelizzazioni cui l’Occidente è stato sottoposto, sembra sempre più una fortezza, ancora poderosa, ma assediata dai "barbari", dai "diversi", da ogni punto cardinale. E la cui volontà di resistere sembra sempre più debole, evanescente, mentre quella di ripartire all’attacco per riconquistare il ruolo di un tempo pare del tutto assente.

Oggi pare che la situazione sia di stallo. Mentre i nemici esterni, nonostante la loro numerosità e scaltrezza, nonostante l’indebolimento del soggetto avversario, non riescono a prevalere, questa crisi interna di natura processuale, a sua volta non riesce ad aver ragione fino in fondo del senso del reale sopravvivente nella contemporaneità, né a evitare che si rigenerino fenomeni di segno contrario, nasca la volontà di reagire, si inizi a desiderare il ripristino di un ordine del reale diverso dal presente e non di rado orientato al passato. Sta di fatto, però, che ogni fermento in controtendenza rispetto alla crisi, ogni fenomeno salutarmente reattivo, ogni germe di rinascita non riesce a invertire né, tanto meno, a influenzare questo trend globale verso la polverizzazione di un ordine intellettuale, sociale, politico "a misura d’uomo e secondo il piano di Dio" che pure è ancora vivo oppure è tornato a essere valore in non pochi dei nostri contemporanei. Da qui, da questa frustrazione continua dei sintomi di ripresa, nasce quel fastidio, quel senso di rabbia impotente, quel logorio assillante, che denunciavo all’inizio.

Ripresa del movimento conservatore negli Stati Uniti, trend verso governi di centro-destra nei Paesi europei — Inghilterra, Ungheria —, crisi del socialismo del Welfare o "ciudadano" alla Rodriguez Zapatero, rottura del fronte anti-americano fra i Paesi del Sud America, fulgore del magistero intellettuale e spirituale — di cui possono beneficiare largamente anche i non-credenti e i non cattolici — di Papa Benedetto XVI: sembrerebbero — e sono — tutti segni di contro-tendenza.

Essi però non riescono a rompere la crosta del laicismo impazzito che, impiantato all’interno di poderosi centri di potere istituzionali — che ridurre alle povere logge, pur non estranee al trend, sarebbe stereotipo e storicamente sbagliato —, ha ormai preso come bersaglio quanto di sparutamente cristiano resta nello spazio pubblico, se non direttamente la Chiesa di Roma. Sembrerebbero esservi le premesse per trasformare l’odio anti-cristiano di larghi settori del mondo islamico in dialogo autentico, per rivitalizzare il ruolo-guida euroamericano, per bloccare le tendenze autodistruttive che si palesano sempre più angoscianti attraverso la clamorosa e devastante denatalità, il sempre più massiccio ricorso all’aborto, l’ormai liberalizzata eutanasia, il dilagare della droga e della pornografia, la pedofilia di massa — del quale fenomeno le colpe di uomini di Chiesa sono solo una goccia nel mare —, la dissoluzione ad nutum dei legami familiari.

Nel nostro Paese viviamo forse in una condizione non comune, straordinariamente favorevole, dove la tenuta e i fermenti di rinnovamento hanno un particolare spessore. Nonostante la plurisecolare aggressione alla fede e al senso comune, sedimenti di mentalità teistica e anti-ideologica sono ancora cospicui, sì che il fatto che governino ormai da diversi anni forze di centro-destra, benché del tutto provvidenziale, non pare un incidente di percorso della marcia trionfante del progressismo radicale post-moderno, ma un fatto di coerenza con il genuino profilo del Paese.

Queste forze di governo sono affette da profondi limiti, se le si valutano da una prospettiva conservatrice: l’ho detto ormai a più riprese. Tuttavia, per il loro basso profilo ideologico e per il fatto che si tratta di "fasci", in senso tecnico, di culture politiche non omogenee, se non addirittura eterogenee, lo spazio che lasciano alle idee conservatrici non è piccolo. Non solo. È un fatto di onestà dirlo: esse stesse sono portatrici di numerose, benché frammentarie, istanze di natura conservatrice.

Dal "meno Stato, più società" — di cui si è dichiarato sostenitore in una intervista il ministro Maurizio Sacconi, ex socialista —, alla "non chiusura" sui temi bioetici, dall’ipotesi "federalistica" al favore per la scuola pubblica gestita da privati, dalla fedeltà atlantica e dall’ostilità contro le tendenze anti-israeliane a progetti rubricati sotto la voce "liberalismo" ma che in realtà sono parte del più genuino Dna conservatore, come il tentativo di disciplinare decentemente la privacy, di ridimensionare la magistratura e quella nascente "religione civile" antifascista e adoratrice della Costituzione ciellenistica del 1948 — di cui è emblema e alfiere la Repubblica scalfariana e di cui ha parlato giorni addietro Paolo Macry —, d’intensificare la lotta contro le varie criminalità organizzate, di ripulire dal socialismo della Prima Repubblica e di modernizzare le infrastrutture del Paese.

Non si riesce a capire — o forse lo si capisce fin troppo bene — perché da noi queste virtualità non riescano a tradursi in interventi di ampio respiro che finalmente "buchino", che blocchino uno scivolamento progressivo, che pongano quanto meno premesse non effimere per una inversione di trend.

Ogni volta infatti che il governo prende una iniziativa di relativamente alto profilo, immediatamente, non l’opposizione, ma qualcuno dell’area di governo o collaterale a essa, l’impallina. Ogni volta che si sente dire "basta!", ci si trova poi di fronte a lunghi procedimenti che si sfilacciano, si disperdono in mille rivoli, si ridimensionano, si rendono alla fine inefficaci e inerti. Tutte le decisioni sono oggetto di defatiganti discussioni e ricerche di compromesso, si badi bene, non alla fine, nell’aula parlamentare, ma prima, nelle segreterie, negl’incontri fra i leader e i dirigenti. Così come sul piano della giustizia ogni sforzo per ripristinare qualche "paletto" che separi il bene dal male è inesorabilmente vanificato.

Tutto questo spiana oggettivamente la strada, rende più efficace l’azione di una opposizione politica la quale di suo è afflitta da tanti e tali problemi da renderne del tutto trascurabile l’impatto politico. E lo rivela il fatto che l’opposizione è sempre più appaltata a realtà extra politiche, come la magistratura di sinistra, l’apparato mediatico dominante, le forze sindacali più ideologizzate, lo spettacolo, qualche frangia ecclesiale "di punta".

Certo: il sistema è quello che è, e giustamente il premier ha lamentato la difficoltà di governare all’interno degli infiniti vincoli formali e degli ancor più fitti intralci sostanziali che l’attuale assetto costituzionale — ma anche una ormai consueta prassi di ininterrotta "concertazione" con miriadi di soggetti disparati: la TAV insegna... — impone. Per inciso, la replica dell’on. Bersani — così si è espresso almeno in due occasioni nel corso del mese di giugno — secondo cui "se a Berlusconi non piace la Costituzione, può andarsene a casa", è veramente rivelatrice non solo del carattere "politico" che certe forze attribuiscono — e da sempre hanno attribuito — alla Carta fondamentale, ma anche della mentalità del tutto retriva e unilaterale che connota oggi le forze sedicenti progressiste. Considerare la Costituzione solo l’alveo di garanzia e il motore di una efficace ed equanime azione politica — dunque uno strumento da adeguare costantemente ai tempi, così com’è accaduto per la Carta americana con i suoi numerosi Emendamenti — e non un totem calato dall’alto dagli dei, e di enunciarne i limiti — pur rispettandola — pare al leader dell’opposizione "democratica" una sorta di sacrilegio: davanti alla Carta così com’è — nonostante i drammatici condizionamenti da essa subita per ragioni ideologiche e per il periodo del tutto eccezionale in cui è stata elaborata — si deve solo prestare un "religioso" omaggio! Ma è far politica ciò?

Tornando al tema e cercando come sempre di capire qualcosa di più, mi pare che la piaga sulla quale si deve, senza falsa misericordia, mettere il dito sia la "confusione" — in senso letterale — ideale e culturale in cui si dibatte la classe dirigente del centro-destra. Animata da molte buone intenzioni finisce poi per prendere a prestito idee e soluzioni da un armamentario politico dei più vasti e disomogenei, per non dire fallimentari. Cascami di liberalismo, sprazzi di buon senso, nostalgie socialiste di molti ex socialisti ed ex comunisti confluiti nel Pdl, conservatori improvvisati, statalisti "nazionali", neo-liberisti, libertari radicali, nuance di reazionarismo e di pseudo-tradizionalismo sono il mix di culture che s’incontrano e si scontrano all’interno della classe di governo. E purtroppo, come succede e per la "sponda" fatta dall’opposizione, ad avere maggior voce in capitolo — fermo restando che l’intervento del leader carismatico può ribaltare senza troppi problemi tutti i tavoli e i "farfuturismi" — sono proprio le tendenze più distanti da un’ottica conservatrice, che, si badi bene, sono anche più genuinamente — è questa la mia ipotesi, anch’essa non nuova —, anche se non sempre esplicitamente, opposte al sentire dell’elettorato.

Un elettorato che in sostanza se ne infischia — lo si è visto durante la recente tornata elettorale regionale dello scorso marzo — degli scandali, delle debolezze "umane, troppo umane" del premier e delle diatribe interne, perché sa che solo attraverso il "pastrocchio" del centro-destra certe sue istanze e molti dei suoi interessi possono aver qualche speranza di trovare realizzazione, O, quanto meno, è talmente malfidente delle proposte dell’opposizione da preferire loro il dubbio, lo spurio, il parziale che viene dall’area di governo.

Infine, fra le cause — senza dimenticare che l’on. Berlusconi governa per la seconda volta in un frangente di crisi economica internazionale, che questa volta è serissima — d’insuccesso vi è da menzionare il profilo oggettivamente basso rispetto alla politica politicante che rivelano gli eletti nelle liste del centro-destra. Se la debolezza di cultura e di tecnica politica può oggi fare in un certo senso gioco — quanto più il ferro è spezzettato o polverizzato, tanto più è reattivo al magnete del leader —, che cosa sarà domani quando il magnete si esaurirà?

Pur non credendo, realisticamente, che si possa cavar sangue dalla proverbiale rapa, l’allergia alla cultura che — al di là dei numerosi "serbatoi di pensiero" che nascono e spesso sono solo pedine per giochi di potere, mentre comunque non spostano le bocce più di tanto — permea il centro-destra per quanto tempo può durare?

Riassumendo, farraginosità dei meccanismi politici, confusione di programmi e di ispirazione dei medesimi, scenari mondiali non propizi, scarsa sensibilità alla cultura per la politica — per limitarsi ai fattori di ordine naturale — fanno sì che l’inversione di rotta o la transizione verso una stagione diversa rispetto a decenni di statalismo e di radicalsocialismo si riveli sempre più lenta e difficile.

La mia convinzione è che un parzialissimo, minuscolo ma reale rimedio per riequilibrare questa situazione sbilanciata e generatrice di malessere, almeno nei migliori, si possa individuare in una rinnovata e potenziata presenza civico-culturale che riassuma, integri e proponga in maniera chiara e netta, nonché fondatamente polemica l’intera gamma di idee e di soluzioni che il pensiero conservatore occidentale propone. Una presenza e una proposta che chiami le cose con il loro nome, che si muova in una ottica di compromesso nell’azione politica ma non nella sfera delle idee e dei principi, che si dimostri preparata e acuta nelle analisi e nelle scelte che la politica impone.

Forse — e sottolineo forse — questo sarebbe sufficiente almeno per iniziare a riportare la gente di buon senso e nemica dell’utopia alla politica e a trasformare un’adesione per molti aspetti oggi istintiva in un saldo ancoraggio che vada al di là degli uomini e dei tempi.

Oscar Sanguinetti