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INDICE DEL N. 3


E D I T O R I A L E
anno II, n. 3, gennaio-febbraio 2010

I «complessi» della destra

Credo che fra i termini politologici più strapazzati dalla "battaglia delle idee" di ieri e di oggi si situi quello di "destra". Su che cosa oggi sia di "destra" regna infatti la confusione, e non solo semantica, più generale. Di governo di "destra", senza nuance, si parla in relazione al fenomeno neo-populista berlusconiano da almeno tre lustri. "Destra storica" è chiamata la classe di governo liberale post-unitaria. Per molti il fascismo è stato un fenomeno "di destra". Per altri lo è — strutturalmente — la Confindustria.

La confusione nasce sostanzialmente dal fatto che "destra", come tutti gli aggettivi e gli avverbi che indicano posizione o direzione, ha sempre un carattere relativo, perché la realtà da esso significata è una dinamica, un movimento. Se dico "a destra guardando la facciata della Chiesa", in quel che dico non vi è margine di equivoco. Ma se dico: "il vento viene da destra" e poi giro di 180° su me stesso, la mia asserzione non vale più, perché è cambiato il termine di riferimento.

Così nello scenario politico occidentale il concetto di destra e il relativo termine affiorano quando la politica stessa inizia a porsi in movimento, inizia a mutare coordinate in maniera pressoché ininterrotta. Ovvero quando nella sfera della politica si manifesta quel fenomeno pluriforme che ha nome "modernità", il quale si attua nella sua essenza — ammesso e non concesso che di essenza si possa parlare — proprio come un continuo superamento, un perenne progresso, non solo cronologico ma di sostanza.

Ma esiste un senso anche "statico" del termine. In questa prospettiva il rimando è a tutte quelle posizioni di pensiero e a quelle forme di azione politica che rimandano a loro volta a un insieme organico di principi, di valori, di modelli sociali, che precedono storicamente lo scardinamento di tutto un mondo operato dal 1789 francese. Un mondo nel quale convivevano in percentuali variabili a seconda delle epoche e dei luoghi, fenomeni di continuità-transizione e fenomeni di rottura-rivoluzione. Quando per la prima volta nella storia — nemmeno in America Settentrionale avverrà qualcosa di simile — in Francia e poi in tutta Europa gruppi di uomini "illuminati" dalle ideologie settecentesche cercheranno di edificare un mondo senza Dio, senza re, senza preti, senza gerarchie di nascita, senza carità, senza limiti al potere politico e al potere del denaro, vi sarà chi reagirà. Dapprima lo farà in nome dell’antico ordine brutalmente violato, poi a poco a poco per difendere quanto la riflessione rivelava implicito nei principi e nelle strutture portanti del mondo "di prima", quegli elementi che esso a sua volta attingeva dal mondo della cristianità medievale ormai al tramonto, se non da quello dell’eredità della cultura occidentale delle origini tout court.

Questa reazione in nome di un passato non tutto da buttare, perché vitalmente ancorato a quadri di vita modellati su una corretta antropologia umana, si manifesterà prima a livello dei popoli — e sarà la grande pagina storica dell’Insorgenza — e solo in seguito sarà fatta propria da minoranze intellettuali e politiche. Nei parlamenti e nei circuiti della cultura riflessa ci si accorgerà a poco a poco di trovarsi di fronte a una frattura radicale con il passato, la quale, se eliminava storture e deviazioni, incrostazioni e ossificazioni del vecchio organismo politico nato con Carlo Magno, gettava contemporaneamente nella spazzatura idee, modelli, principi, valori non solo vissuti dai progenitori più o meno recenti, bensì radicalmente adatti alla "vita virtuosa in comune" di tutti gli uomini di tutti i tempi.

Di una frattura, altresì, operatasi non a caso o per "forza" di decrepitezza, ma per opera di agenti palesi e "discreti", tenacemente dediti a ingannare, corrompere, strumentalizzare, colpire con la violenza "legale" o semplicemente bruta, chiunque, uomo o istituto, fosse di opinione contraria.

La profonda riflessione sui fondamenti dell’ordine antico1 maturata fra gli studiosi e i polemisti farà sì che nei corpi legislativi degli Stati restaurati ma anche in seguito di quelli liberali vi sarà chi indosserà in misura integrale i principi negati dalla Rivoluzione "francese", scegliendo per differenziarsi di sedere sul lato destro dell’ideale emiciclo del parlamento.

Destra, dunque, in origine sta per monarchia, religione, tradizione, gerarchia, libertà concrete, "piccola patria", famiglia, economia a modello corporativo. Se sulle prime il richiamo al modello sociale antico e perenne è veicolato — molto poco in Italia, in verità — da sentimenti legittimistici, dopo la generazione dei Joseph de Maistre e dei Louis de Bonald, quando appaiono i primi sociologi e filosofi politici conservatori, per lo più cattolici — alla Giuseppe Toniolo o alla padre Matteo Liberatore —, i due elementi cominciano a scindersi in un processo analogo allo sganciamento del modello di cristianità dalla sua incarnazione storica medievale — peraltro non negata — che si segnala con il magistero di Papa Leone XIII.

Ma nella misura in cui la dinamica che si apre con il 1789 si sviluppa e accelera, ben presto "a destra" troveremo non più solo i "reazionari" e i "contro-rivoluzionari" dell’età della Restaurazione, bensì tutti quei fenomeni settoriali di rigetto che il progresso delle idee rivoluzionarie produce. In questi "scarti di lavorazione" vi sarà sempre meno del retaggio antico mentre prevarranno motivi antagonistici rispetto a questa o a quella idea o situazione di fatto degenerata, oppure "troppo progredita".

Così di "destra" saranno i nemici del giacobinismo a partire da Termidoro fino ai direttoriani e a Napoleone, a soggetti cioè che riprendevano in forma non radicale ma non per questo meno reale e incisiva — anzi, ben più incisiva e durevole in concreto — l’ideologia libertaria ed egualitaria del 1789.

Così i liberali saranno chiamati "destra" dal nascente socialismo e il fascismo, nonostante le sue origini e il suo nucleo dirigente genuinamente di sinistra, sarà per i suoi avversari una reazione di "destra", e così via, fino all’aberrazione marxista-leninista — alla fine degli anni 1950 per esempio il regime comunista cinese lancerà in tutto il Paese una vasta campagna contro una presunta "destra" che farà migliaia di vittime — che in qualsiasi fenomeno di pura reazione fisiologica della società contro l’aggressione dell’"utopia armata" vedrà solo il coagularsi a ripetizione di "destre" politiche.

Davanti a questo scivolamento ininterrotto semantico-politico ci si può chiedere: dov’è oggi la destra? chi si riconosce nel paradigma originario? chi cerca al presente di veicolare alla comunità del Paese quanto di positivo è esistito all’interno di quel mondo di idee, di principi, di modelli socio-politici lato sensu conservatori?

Difficile dirlo, se si esamina lo scenario politico e pre-politico italiano.

Nominalmente in Italia governano, e non da ieri, forze dette — e sedicenti — di "centro-destra". Fino a poco tempo fa esisteva anche una forza partitica nazionale, e di peso, che si ricollegava esplicitamente a una "destra nazionale", vissuta all’interno del Movimento Sociale per alcuni decenni a partire dai primi anni 1970. Ancor oggi esistono — almeno sulla carta stampata ed escludendo operazioni palesemente surrettizie e inquinanti anche recenti — personaggi che si dichiarano o sono etichettati come "intellettuali di destra". Ma la destra, nel senso predetto, dove sta?

Certo è esistita tutta una serie d’inibitori storici al formarsi di una opinione autenticamente di destra. Per esempio, lo scotto pagato con il crollo del fascismo — con il quale, come detto, è stata identificata abusivamente ogni prospettiva di destra almeno fino a Renzo de Felice e a Ernst Nolte — ha pesato e pesa ancora e profondamente, diremmo, nel Dna della destra… La discutibile vicenda della Casa di Savoia prima, durante e dopo il fascismo sino allo ridicolo attuale, ha privato la destra di un riferimento alternativo tangibile non solo in termini di forma dello Stato… Il mix fra sinistra nazionale di vertice e base di destra all’interno del pur vivace movimento neofascista del secondo dopoguerra è sempre stata una zavorra sul futuro della destra vera… La confusione dottrinale cui pochi hanno cercato di mettere riparo — fra costoro pochi annovererei, con profili ed efficacia ovviamente diversi, Giovanni Volpe, Alfredo Cattabiani, Giovanni Cantoni, Augusto del Noce, Marco Tangheroni — ha sempre facilitato incursioni abusive di "false destre" stile Nouvelle école…

Non si può infine non menzionare l’allergia alla "cultura dell’essere" e la preferenza per la "cultura del fare"— e basta — che permea la mentalità del mondo di centrodestra. Né si può omettere di ricordare la deriva tipicamente italica verso la contaminazione e l’ibridazione — che cos’è stata la democrazia cristiana culturale e politica se non una colossale "ibridazione" di cristianesimo e rivoluzione? —, il "cerchiobottismo", per usare un neologismo che trovo assai brutto ma efficace.

Sta di fatto che il richiamo a un ordine culturalmente alternativo — anche se non radicalmente antagonistico — rispetto a quello vigente nella contemporaneità oggi latita. E invece v’è bisogno più che mai di opzioni radicali, che spazzino via decenni di compromessi, si badi bene, non nella pratica politica, dove è vero che regna l’arte del compromesso e i principi devono ipso facto essere "ammorbiditi", ma nelle tavole dei valori. Non auspico certo una nuova insorgenza "con gli schioppi", come duecento anni fa, bensì che si attui lentamente una graduale "rettificazione dello stato in cui siamo caduti", come insegnava de Maistre: cioè un graduale ricupero dello stato di salute da parte delle forme di attuazione della convivenza comune — forma dello Stato, metodo democratico, istanze europee — ormai divenute "normali". E qualunque riscoperta, anche embrionale e frammentaria, del patrimonio ideale della destra originaria è premessa e condizione perché il ritorno a tale condizione possa avvenire.

Ci si potrebbe chiedere come è possibile pensare di rilanciare e di far tornare a parlare agl’italiani del terzo millennio i principi perenni, dato il loro oblio e il loro sfiguramento plurisecolare. L’operazione certo non è facile: ma, altrettanto per certo, è già fallita in partenza se non si mette in moto. La difficoltà sta solo nel saper confezionare temi antichi e forse come detto perenni in discorsi nuovi e farli "acquistare" e "consumare" dall’uomo e dalla donna di oggi. Non occorre inventare niente, ma solo dire con parole diverse, capaci di bucare la coltre del pregiudizio e della mentalità autoreferenziale che impregna ormai la società, le cose di sempre. La forza starà sì, ovviamente, nel mezzo adottato, ma l’efficacia del mezzo sarà accresciuta dal "sapore di realtà" e dall’essere "a misura d’uomo" che le proposte di destra intrinsecamente contengono.

Non va infine sottovalutato che esiste e in Italia ha ancora un rilievo pubblico determinante una straordinaria "agenzia" promotrice di principi e di valori, di certo orientati ad interiorem hominis ma dalle ampie ricadute sociali, che è la Chiesa e in specifico i suoi organi magisteriali, dal Pontefice alle congregazioni vaticane, ai singoli presuli.

Da questo lato, ferma restando la corposa routine ordinaria, si notano oggi fermenti nuovi, prese di posizioni pastorali un po’ più decise e coraggiose rispetto ai "complessi" verso la modernità degli anni del post-Concilio Vaticano II. È vero che ora siamo in tempi in cui la modernità stessa fa autocritica e che i problemi oggetto dei richiami delle gerarchie sono arrivati ad assumere una gravità e una radicalità dirompenti, impensabili solo qualche decennio fa. Tuttavia non tutti i vescovi sono ugualmente schierati e non tutti si sentono drasticamente richiamati a illuminare allo stesso modo il proprio gregge su questi temi.

Ancora, nel mondo delle scienze i tentativi neo-dogmatici di qualche divulgatore interessato stanno mostrando sempre più la corda e anche qui si assiste a un certo ricupero di teorie considerate fino a poco tempo fa antiscientifiche.

Le filosofie post-moderne stanno rivelando ogni giorno di più la loro essenza antinoetica e antimorale e le scienze sociali si accorgono della china — per esempio demografica — che ha imboccato l’Occidente.

Dunque, buoni principi e "validi" valori si possono tuttora attingere a piene mani.

Lo strano è che tutta questa fermentazione non riesce a tradursi in opere editoriali, in quotidiani, in riviste di cultura di un certo rilievo, in think tank, in azioni formative per la politica, in eventi, ovvero in quella infrastruttura fatta di mille realtà che è la base di appoggio e di progresso di qualunque tentativo di cambiamento di temperie culturale.

Qualcosa, per la verità, anche nella destra autentica — o in ambiti che ne abbiano almeno il "sapore" —, a livello di rivistine, di siti web, di blog si muove, ma non pare farcela ad assumere una "massa critica" che gli consenta d’incidere sull’ambiente circostante. Vi è a destra una frammentazione di idee, di culture e d’iniziative, a dir poco sconfortante. Manca un catalizzatore, un soggetto che aggreghi, orienti l’intera gamma delle iniziative spontanee e ne accresca l’efficacia anche a costo di imporre la rinuncia a qualche elemento identitario.

Ma, come ho già avuto modo di scrivere, una realtà così, se non c’è, si può costruire e in tempi nemmeno troppo lunghi e non sempre con risorse ingenti: la parabola del conservatorismo statunitense degli anni 1950-1980 può servire — mutatis mutandis e servata distantia — da valido esempio. Ci vuole però la volontà di farlo e l’umiltà di apprendere anche dai "nipotini" della vecchia Europa.

La premessa indispensabile — che può e deve iniziare fin da subito ed è anche gratuita — a questo sforzo "sinfonico" di ricostruzione è liberarsi dai "complessi". Non bisogna cioè avere remore, paure o sensi di colpa nel dichiararsi di destra e nel giudicare con verità e, se del caso, anche con severità ogni tentativo di ibridazione snaturante e, peggio, qualunque travisamento che faccia passare per destra ciò che destra non è. Il resto sta a noi e alla Provvidenza, che c’è, anche se non la sentiamo o non lo vogliamo.

La situazione in cui oggi ci troviamo è così grave che non bastano lucidità e buona volontà. Pare necessario ricorrere a qualcosa di più, a qualcosa che solo la preghiera, e una preghiera particolare, può propiziare. Una preghiera per chiedere l’avvento di uomini e donne di grande statura che possano fungere da pivot, di "giganti" sulle cui spalle possiamo montare per vedere più in là, di spiriti magni che sappiano assaporare il tempo e piegarlo al bene.

L’idea non è mia: Benedetto XVI il 1° febbraio scorso, parlando ai vescovi scozzesi e gallesi in visita ad limina, dopo aver diagnosticato il danno per la verità rappresentato dallo strapotere dell’opinione, ha espresso un augurio proprio in tal senso, allorché ha detto: "Grandi scrittori e comunicatori della sua [del card. Henry Newman] statura e della sua integrità sono necessari nella Chiesa oggi e spero che la devozione a lui ispirerà molti a seguirne le orme". Non si tratta di un tour d’esprit nuovo, ma antico nella Chiesa: un esempio classico è l’auspicio profetico di Luigi Maria Grignion di Monfort (1673-1713), un santo bretone dell’epoca in cui l’illuminismo iniziava il suo lavoro di logorio spirituale e intellettuale anche all’interno della compagine ecclesiale, secondo cui la condizione ultima del mondo sarebbe stata così deteriorata che solo l’avvento di grandi santi, di quegli "gli uomini della tua destra" che egli evocava e invocava nella sua splendida Priére embrasée, la "preghiera infuocata", i quali soli, ispirati dalla Provvidenza, avrebbero potuto contrastare le forze del male scatenate.

Nota

1 Anche se ormai è entrata nell’uso comune, evito di proposito di usare l’espressione "antico regime" o "ancien régime" per due motivi. Primo, perché la considero semanticamente fuorviante: tradurre infatti in italiano "ancien" con "antico" invece che con "vecchio", cioè "che c’era prima", accresce la carica di negatività dell’aggettivo; secondo, in quanto questa espressione nasce e viene usata in maniera non neutra proprio dai rivoluzionari, per designare l’intero mondo che precede gli Stati Generali del 1789, sottolineando la radicale frattura, che la Rivoluzione si proponeva di operare nei confronti di tutto il passato.