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INDICE DEL N. 1

C O N F R O N T I
Anno I, n. 1, settembre-ottobre2009

Andrea Rossi

Memorie rimosse

Ci sono luoghi della memoria che sono figli di un Dio minore. Chi conosce, almeno superficialmente Roma, sa bene che via Caetani è poco più di un vicolo, perpetuamente intasato da autovetture male posteggiate. La lapide dedicata ad Aldo Moro (1916-1978) è in genere occultata da camioncini o da transenne. Viene da chiedersi se altri dolorosi luoghi della memoria nazionale, come la sala d’attesa della stazione di Bologna, fossero trattati con identico disdoro, chissà che cosa accadrebbe. Senz’altro fior di intellettuali, stracciandosi le vesti, scriverebbero ispirate e pensose considerazioni sull’assenza delle istituzioni e lo scarso senso civico nazionale. In realtà via Caetani è fra tutte le memorie minori, quella meglio trattata; altre persone perbene sono morte durante gli “anni di piombo”, e non esistono cippi a rammentarne l’esistenza e la tragica fine.

Tornano alla mente i ricordi di quei giorni: sono, nel mio caso, memorie d’infanzia che riportano dettagli sgradevoli, ben lontani dalla retorica del “tutti insieme contro il terrorismo” che molti, in modo posticcio, hanno appioppato a quella stagione triste e sanguinosa. Forse solo Mario Calabresi, il figlio del commissario Luigi (1937-1972), è riuscito in tempi recenti a rendere bene il clima di quegli anni tutt’altro che fantastici. Per quanto mi riguarda ho in mente il discorrere sottovoce in famiglia sul fatto che la squadra politica della Questura, la Digos, sorvegliava in borghese l’entrata e l’uscita dei dirigenti del petrolchimico ferrarese, dove mio padre era responsabile del laboratorio di ricerche, nel concreto timore che si potessero verificare azioni terroristiche.

Già: perché non morivano ammazzati solo poliziotti, magistrati, politici e giornalisti, ma anche dirigenti d’azienda. Cercando notizie nel sito Internet che a questi uomini e donne è stato dedicato (1), ne ho individuati diversi, quasi una decina, tutti morti fra il 1978 e il 1981. Uomini perbene, scomparsi nella nebbia del tempo e che non dicono più nulla a nessuno nell’Italia di oggi: Piero Coggiola (1932), dirigente della Lancia di Chivasso (Torino), ucciso nel 1978; Carlo Ghiglieno (1928), dirigente della Fiat, assassinato nel 1979. Poi i nomi che ci toccarono da vicino, perché erano uomini che lavoravano per la Montedison, la stessa azienda di mio padre: Silvio Gori, detto Sergio (1932), dirigente ammazzato a Porto Marghera (Venezia) nel 1980, e Giuseppe Taliercio (1927), rapito, seviziato e ucciso un anno dopo. Sarà per i ricordi poco lieti sopra esposti, e forse per limiti personali, che non mi è mai riuscito di trovare nulla di salvabile del bagaglio di cascami ideologici del cosiddetto “movimento del ’77”, stagione in cui creatività e violenza politica andarono talmente a braccetto da essere le due facce di una stessa medaglia.

Nel settembre 2007 il Dipartimento di Discipline Storiche dell’Università di Bologna, in collaborazione con l’archivio storico dell’università e l’Istituto Ferruccio Parri hanno organizzato il convegno Ripensare gli anni ’70. «Gli anni Settanta — sottolineava allora Valerio Romitelli, docente universitario fra i relatori del convegno — rappresentano il crinale tra il passato remoto e il passato prossimo. Che lo vogliamo o no, siamo tutti figli degli anni Settanta: è in quel decennio che comincia ciò che ci è più vicino».

In realtà, secondo me e al contrario di quanto sosteneva Romitelli, in quel decennio, più che “cominciare ciò che ci è più vicino”, finiva (e meno male...) quanto di peggio aveva prodotto la svolta culturale iniziata alla fine degli anni 1960, ossia la velenosa e contagiosa ubriacatura della militanza politica impostata sull’annientamento dell’avversario, che aveva provocato una scia di sangue destinata a esaurirsi (ma mai del tutto) nei primi anni 1980. Peraltro in quel convegno furono presentate anche ardite riflessioni sulla “creatività del movimento”, sull’“assalto al muro”, e immancabilmente, sulla morte del giovane studente e militante di Lotta Continua Francesco Lorusso (1951-1977). Quest’ultimo ha una lapide in memoriam nel centro a Bologna, a differenza del brigadiere Giuseppe Ciotta (1947), morto ammazzato dai terroristi di Prima Linea a Torino lo stesso giorno, il 12 marzo 1977, mentre portava i figli a scuola, il cui ricordo è invece patrimonio dei familiari e delle polverose annate di qualche quotidiano.

In coincidenza con le commemorazioni del Sessantotto, l’anno scorso, sempre il Dipartimento di Discipline Storiche dell’Università di Bologna in collaborazione con l’Institut des Sciences Sociales du Politique de l’Université de Paris X, ha svolto un seminario le cui relazioni sono state di recente pubblicate su Storicamente (2): arduo anche in questo caso trovare una traccia di indagine sulla violenza come tratto distintivo del movimento del “vietato vietare”. Ci si gira intorno e si riflette, come fa Marica Tolomelli nel saggio introduttivo, sul fatto che l’ambito di studi è stato a lungo difficoltoso «[…] a causa del pervicace predominio, per un ventennio almeno, esercitato da una memorialistica marcatamente autoreferenziale, e dell’irrigidimento su un livello eminentemente politico del dibattito incentrato su una vacua diatriba circa le contraddittorie cifre, a seconda dei punti di vista, qualificanti il movimento — antiautoritarismo vs. dogmatismo; pacifismo vs. una pericolosa disposizione alla violenza». Non una parola sul fatto che “la memorialistica autoreferenziale” è stata foraggiata per decenni dall’intellighenzia marxista presente ovunque nelle redazioni delle case editrici, dei giornali e degli altri media, spesso in posizioni strategiche: si nasce rivoluzionari per finire borghesi, a quanto pare….

Nonostante le buone intenzioni, resta comunque la percezione di squilibrio che tutt’oggi si rinviene negli studi su quei giorni, buon ultimo il ponderoso volume di Enrico Deaglio Patria 1978-2008 (3): un terribile mattone ideologico che raccoglie tutti i luoghi comuni della sinistra extraparlamentare, dalle fedeltà atlantiche alle ingerenze dei servizi segreti americani, dallo stragismo di stato alla P2 al governo del Paese, per finire, last but not least (ovviamente), con l’oscura mano del Vaticano e le sue inconfessabili trame. Esiste senz’altro un pubblico ansioso di leggere questo genere di letteratura pseudo-storica, e temiamo sia lo stesso che si abbevera alle monumentali lepidezze dei romanzi di Dan Brown; chi invece volesse anche solo la semplice narrazione della violenza armata contro i dirigenti d’azienda non troverebbe un rigo di indagine scientifica sull’argomento.

Purtroppo a tre decenni da quella atroce stagione, Renato Curcio è un apprezzato conferenziere, invitato da assessorati alla cultura e istituzioni universitarie. Carlo Ghiglieno è una voce su Wikipedia e il nome di una borsa di studio per studenti meritevoli, i quali forse non sanno nemmeno di che cosa è morto il loro benefattore.

Sul fatto che esistano memorie ancora oggi ostinatamente e chiassosamente negate, non esistono quindi dubbi, almeno per chi cerca di guardare le cose in un modo minimamente obiettivo. Le modalità di imposizione di questo silenzio sono da almeno cent’anni le stesse di tutti gli estremismi ideologici: strilli e bastonate, più o meno metaforiche. Nil novum sub sole: Manlio Cancogni narrava che l’esordio del fascismo milanese avvenne un paio di mesi prima della riunione di piazza San Sepolcro del 23 marzo 1919. L’11 gennaio dello stesso anno, infatti, mentre Leonida Bissolati (1857-1920) teneva al Teatro alla Scala un comizio che aveva come argomento “la Società delle Nazioni”, Benito Mussolini (1883-1945), assieme a un nutrito gruppo di ex arditi e giovani futuristi, costrinse il leader socialista, con schiamazzi e improperi assortiti, a interrompere la propria concione. Nel teatro risuonava soprattutto il grido “non fatelo parlare!” che divenne ben presto la parola d’ordine di tutti i seguaci del direttore del giornale fascista Il popolo d’Italia. In sostanza non importava quali tesi Bissolati intendesse esprimere: il solo fatto di volerle esporre pubblicamente scatenò le ire dei futuri fondatori del fascismo. Se è vero, come è vero, che chi non impara nulla dalla storia è destinato a rivivere gli eventi trascorsi, non c’è da stupirsi come questa non esemplare pagina del Novecento sia stata introiettata da epigoni di tutt’altro colore politico.

Il grido di battaglia “non fatelo parlare!”, dopo aver seguito le pubbliche presentazioni dei volumi di Luca Telese e di Giampaolo Pansa, è infatti risuonato ancora l’anno scorso nella cittadina toscana di San Giuliano Terme (Pisa) dove Antonio Carioti, autore del volume Gli orfani di Salò (4) aveva cercato di presentare la sua opera presso l’aula del consiglio comunale. Poco rassicuranti “presìdi” di presunto colore antifascista sorvegliavano già di buon’ora la ridente località termale, mentre i gruppi consiliari del Partito della Rifondazione Comunista (Prc), del Partito dei Comunisti Italiani (Pdci) e di Sinistra Democratica (Sd) minacciavano irreparabili conseguenze se solo la parola “Salò” avesse varcato le porte del municipio. Questo — in assoluta similitudine con i marinettiani apostoli della “sacra” violenza del 1919, a dimostrazione che Georges Sorel (1847-1922) è un buon maestro per ogni stagione — indipendentemente dai contenuti del libro e dall’argomento della conversazione.

In realtà la conoscenza di alcune vicende narrate da Carioti male non avrebbe fatto ai convenuti, come ad esempio il sapere che diversi reduci della Repubblica Sociale Italiana (Rsi) finirono per fare interessanti carriere politiche, sindacali e giornalistiche all’insegna di colori politici affatto diversi. Ma evidentemente, come ebbe ad affermare l’avvocato e storico Odoardo Ascari, «alcuni cervelli sono fatti a corridoio: più di una idea per volta non ci passa nemmeno a spinta». Inutile aggiungere che questo straordinario esempio di inciviltà, è stato definito da alcuni attivisti «imponente mobilitazione antifascista» (5), a dimostrazione di quanto corpose frange della sinistra radicale abbiano a cuore la civile e pacifica convivenza.

Come in altre occasioni, il mondo accademico ha osservato il tutto all’insegna di un mutismo a oltranza, rotto da querule voci in disaccordo con i modi (e non con gli argomenti) della protesta.

Poche settimane dopo i fatti in questione e a neanche cinquanta chilometri di distanza, in quel di Marina di Pietrasanta (Lucca), si è dovuto assistere a una poco lieta copia in carta carbone dei fatti di San Giuliano. Durante uno degli incontri pomeridiani del Caffè della Versiliana, coordinato da Romano Battaglia e dedicato alla figura del leader storico del Movimento Sociale Italiano (Msi) Giorgio Almirante (1914-1988), un nutrito gruppo di attivisti con bandiera rossa — e dai modi da camicia nera — ha contestato i relatori all’insegna dell’immortale grido “non lasciateli parlare!”, costringendo gli intervenuti a sospendere l’incontro e facendo volare seggiole qua e là, secondo lo stile delle migliori serate futuriste d’anteguerra.

A scanso di equivoci, poco ci interessano i retroscena di entrambe le vicende, ossia le presunte “provocazioni” da parte di esponenti politici di destra, così come nulla ci importa della diseguale qualità di autori e relatori coinvolti nei fatti in questione, tutti vittime della inciviltà di poco rassicuranti frange oltranziste; sottolineiamo invece come la pericolosa china della “provocazione fascista” conduca dritta dritta a quella interpretazione del tragico rogo di Primavalle a Roma — propagandata nei plumbei anni 1970 con una mezza dozzina fra libretti e pamphlet — che sosteneva come i fascisti avessero organizzato l’attentato ai fratelli missini Virgilio (1951-1973) e Stefano (1965-1973) Mattei per far ricadere la colpa sull’estrema sinistra: con l’occhio di oggi pare incredibile come nessuno degli autori si fosse avveduto della tragica e grottesca iperbole di una famiglia che si dava fuoco per fare dispetto al proletariato, ma così fu. E fra chi immaginava e scriveva quelle tragiche fanfaluche c’erano anche i compagni di strada del succitato Deaglio, ieri in Lotta Continua, oggi nei salotti buoni del progressismo nostrano.

È una sinistra del “boia chi molla” ideologico che ci appare inferiore, per metodi e scopi, perfino alla immortale caricatura che ne fece Gino Cervi (1901-1974) nel film, tratto da un romanzo di Giovanni Guareschi (1908-1968), Don Camillo monsignore ma non troppo, quando Giuseppe Bottazzi detto “Peppone”, dormiente sugli scranni della Camera, si svegliava improvvisamente dalla pennichella postprandiale a causa dei tafferugli in aula, e senza nemmeno capire la causa del contendere, alzava l’indignato indice accusatore urlando a pieni polmoni: “Silenzio, state zitti, fascisti!”.

Insomma, i “gendarmi della memoria”, secondo la felice definizione di Giampaolo Pansa, non accettano di mettersi in discussione né sulla Resistenza, né sul Sessantotto, né sul Settantasette. Resta da capire se esisterà mai un terreno di incontro con i granitici difensori di una vulgata storica che ormai fa acqua da tutte le parti. Oppure se il livello del dibattito è destinato a restare quello delle scritte apparse a Torino il giorno in cui il bravo Mario Calabresi è divenuto direttore de La Stampa: “Calabresi assassino, Pinelli assassinato, nessuna pace con lo stato”.



Note

(1) Cfr. <www.vittimeterrorismo.it>.
(2) Cfr. Storicamente, n. 5, 2009, nel sito <http:// www.storicamente.org/ 07_dossier/ sessantotto- tolomelli.htm>.
(3) Il Saggiatore, Milano 2009.
(4) Mursia, Milano 2008.
(5) Cfr. il sito <http://www.resistenze.org/>.