HOME PAGE
INDICE DEL N. 1


E D I T O R I A L E
anno I, n. 1, settembre-ottobre 2009

Le chance di un conservatorismo italiano

Quali chance di formarsi e di svilupparsi ha oggi un’opinione autenticamente conservatrice nel nostro Paese?

Non alludo a quel sentire comune e diffuso che inclina alla tradizione e alla continuità e sopravvive ancora robusto a livello popolare. Penso invece alla possibilità di dar voce in maniera riflessa, organizzata e non estemporanea a istanze conservatrici, ovvero alla formazione di una visione, di una cultura politica e di una classe dirigente, così come è avvenuto mutatis mutandis e servata distantia negli Stati Uniti.

Come ho già avuto modo di scrivere, sono pienamente consapevole che le vedute conservatrici godono oggi di un uno spazio assai più ampio che non al tempo della Prima Repubblica. Allora la loro emarginazione era pressoché totale: gruppi, riviste ed editoria conservatrici vivevano stentatamente all’interno dell’esigua nicchia contigua all’area politica monarchica e missina, cioè al di fuori dell’“arco costituzionale”, riservata loro dalla cultura ufficiale. Anzi, per un certo periodo, alla fine degli anni 1970, con il delinearsi dell’esondazione dell’egemonia comunista dalla cultura e dal lavoro allo Stato, le prospettive stesse di sopravvivenza per istanze conservatrici e religiose — nonché, molto più in concreto, per chi le indossasse — erano decisamente in forse.

Lo smantellamento del Muro di Berlino, esattamente vent’anni fa, allorché il mondo abbandonò la logica dei blocchi ideologici contrapposti, ha radicalmente sconvolto lo scenario nazionale e internazionale. Anche se con questo non sono finite le ideologie paradossalmente, al contrario, sembrano essersi moltiplicate, nella misura in cui oggi è il tempo del “fai-da-te” e ciascuno si costruisce il proprio credo su misura... , la radicale e paralizzante alternativa fra mondo libero e sistema socialista non c’è più, o non c’è più a livello globale.

Ma è successo qualcos’altro: Papa Giovanni Paolo II, fra i tanti meriti, ha avuto anche quello di far uscire il mondo cattolico dalla subordinazione a prospettive ideologico-mondanizzanti, alimentate dalle minoranze progressiste, che abusavano del rinnovamento auspicato dal Concilio Vaticano II e propugnavano un nuovo e rivoluzionario modello di Chiesa. La Chiesa che Papa Wojtyła lascerà al suo successore, pur con tanti problemi, sarà ben lontana dai complessi e dal disorientamento strutturale che aveva contrassegnato gli anni oggettivamente bui — lo dico con dolore, ma con altrettanto realismo dell’ultimo pontificato di Paolo VI.

Queste due svolte di enorme portata hanno segnato il crollo dei pilastri il mito comunista e il complesso d’inferiorità del mondo cattolico nei suoi confronti , delle linee-forza che avevano dato il “sapore” agli anni 1960-1970.

Ma, a partire dal 1989, un po’ tutti i miti del Novecento si sono sfaldati, anche se spezzoni di essi sopravvivono e con un ruolo frenante a livello delle strutture, dei processi sociali, e specialmente nella cultura del personale che un tempo se ne alimentava. Nella politica italiana, finita, almeno nel sistema elettorale, la Prima Repubblica, la morsa dell’“arco costituzionale” si allentava, la piattaforma “ciellenista”, creata sulle spoglie del fascismo nel 1943, franava e si aprivano nuovi spazi, affioravano nuovi soggetti e si liberavano energie fino ad allora “congelate” dal ricatto simultaneamente antifascista e anticomunista.

è un fatto che oggi, se ci si dichiara conservatori o “di destra”, non si viene in genere azzittiti con l’epiteto di “fascista”, come accadeva automaticamente negli anni 1970 e 1980: ora vi è posto, e anche parecchio, per chi è latore di una visione del mondo in contrasto con la post-modernità contemporanea, il nuovo kairos del nostro tempo. Non ho detto: tutto il posto possibile, perché vi è ancora oggi un limite, uno “zoccolo duro” che non si può intaccare senza creare reazioni, non sempre composte. Basti pensare alla storia del nostro Paese, quando si toccano in maniera non epidermica punti nevralgici come il Risorgimento, la Resistenza, o anche lo stesso Napoleone: se lo si fa, non tarda infatti a risuonare il classico triplice squillo di tromba che un tempo nelle manifestazioni di piazza preludeva alla “carica” della Celere...

Ma — è lecito chiedersi — questi spazi reali sono stati riempiti? e se sì, in che modo e in che misura?

Se è possibile dire con buona sicurezza che gli spazi sono stati occupati, e anche a prezzo di sforzi di rilievo, tuttavia è altrettanto evidente che non sono stati affatto colmati.

Mi permetto, attraverso qualche quesito, di segnalare qualcuna delle “partite aperte” o “in sofferenza” che affliggono al presente l’“azienda Italia”.

Prima partita: dove sono finiti gli anticomunisti, quando finalmente la storia, dopo decenni di minacce e di scomodo ghetto, ha dato loro ragione? è forse finito il comunismo? o ne è rimasta a livello diffuso l’anima peggiore? E perché quelli che, in combutta con la centrale moscovita, ci preparavano un futuro ad andar bene “polacco”, hanno potuto defilarsi senza pagare pegno? Perché mai non si è cercato di liberarsene definitivamente? La tesi secondo cui “si stanno suicidando da soli” è vera solo in parte: mentre cineasti “organici” vivono ancora e da anni con i sussidi pubblici, producendo opere tanto scadenti e moralmente corrosive — quando non biecamente autoreferenziali —, quanto finanziariamente fallimentari, ci si è chiesti come mai il bel film di Andrzej Wajda sulle fosse di Katyń lo hanno visto in quattro gatti? L’unico anticomunista — con molta e apprezzabile verve, ma si sa con quale finezza concettuale — pare esser rimasto oggi solo l’on. Berlusconi...

Ancora: perché nessuno osa rimettere in discussione — dico in discussione, non ho in mente i killer dei medici abortisti... “conquiste di civiltà” radicalmente terrificanti come l’aborto libero e gratuito, grazie al quale è stato impedito di venire al mondo a milioni di italiani? non nasce anche da qui il problema demografico, con i suoi corollari devastanti? oppure quel terribile attentato alla salute e stabilità della società — gli effetti dell’ubriacatura del 1970 si cominciano a sentire non da ieri, ma oggi gli scricchiolii di prima sono diventati autentici crolli — che è il divorzio, un atto che da noi è automatico e unilaterale?

Perché non si riesce a mettere un argine alla dissolutezza in senso tecnico e alla dissoluzione, praticate in massa da tanti nostri giovani? Si litiga sugli orari di chiusura ideali per i luoghi di “svago”, ci si straccia le vesti per le “stragi del sabato sera”, s’introduce l’etilometro, mentre non si fa nulla per educare, né per ridimensionare quella legione di astuti “operatori” del tempo libero — discotecari, spacciatori di droga e di alcoolici, musicanti vari, forsennati disc jockey, “cubiste/i” — che prosperano come vampiri sulla pelle della nostra “migliore” gioventù?

Sempre in tema di dissoluzione, perché non è possibile porre freno al dilagare dell’osceno notturno, divenuto ormai una piaga endemica, una maledizione per chi ne è vittima, che si può e delle volte non si può non vedere lungo tante, troppe, delle nostre strade?

Perché tanta incertezza della pena per chi delinque? Non si comprende che questa debolezza agisce come un solvente tragicamente potente e silenzioso dei legami sociali e della fiducia nell’autorità?

Perché tanto lassismo e incertezze, invece che organizzare in maniera dignitosa l’immigrazione, questa presenza ormai strutturale nel nostro Paese e negli altri Paesi europei? Perché far fare alla gente di ogni erba un fascio, danneggiando chi viene in Italia con intenti seri e costruttivi, pur di salvaguardare i — malintesi — diritti di minoranze di stranieri che approdano da noi solo per dare un morso alla “mela” o per delinquere o, magari, per preparare il Gran Califfato? Per chiarirsi i termini del problema si legga l’ampia recensione che Massimo Introvigne ha fatto del bel volume di Christopher Caldwell su il Domenicale di sabato 5 settembre e in uscita da Garzanti L’ultima rivoluzione dell’Europa. L’immigrazione, l’Islam e l’Occidente

E la scuola? A che cosa è ridotta, nonostante i tanti sforzi ivi profusi? è ancora un luogo di formazione o — un po’ com’era una volta, al tempo del servizio di leva, l’esercito un luogo di de-formazione?

Tutti questi — ma l’elenco sarebbe ben più lungo — sono quesiti più che legittimi, che tanta gente in Italia si pone e non in astratto: ma la risposta che ottiene da parte della politica, quando c’è, se non è volutamente ellittica, è palesemente insufficiente.

La causa di questo non è una sola, ma credo fra di esse spicchi una inadeguatezza di prospettiva, una debolezza sul piano delle idee, una carenza culturale che connota le forze politiche ben orientate e le altre forze che hanno compiti di regìa nella società. Non penso peraltro che si tratti di problemi nuovi né che possano essere risolti da un ipotetico governo conservatore insediato con un colpo di bacchetta magica, e oggi governare la complessità e nella complessità è tutt’altro che facile.

Tuttavia quello che stride è l’assenza nel dibattito — o, comunque, la loro esiguità — di posizioni “forti”, nitide e ben argomentate con cui affrontare queste e altre questioni che investono da vicino la vita quotidiana di milioni d’italiani.

Ogni volta, anzi, che le “sinistre” — non in senso partitico, ma come stile di pensiero e come posizioni politiche — prendono una iniziativa volta a erodere ancor di più il tessuto sociale e si palesa una reazione, qualcuno vi si associa sempre. Peccato però che poi, paralizzato dalle sue idee ancipiti, questi finisca per “ridurre” la reazione, per annacquarla, per incanalarla in alvei impropri, sì che essa non riesce più a incidere con tutta la forza delle origini. Un tempo questo era il ruolo del partito democristiano, perenne mediatore tra la verità e l’errore e retroguardia istituzionale, con ruolo di copertura “a destra”, del processo di “modernizzazione” del Paese. Oggi è il ruolo di tanti gruppi e intellettuali che si autodefiniscono o che sono definiti, con diverse sfumature terminologiche, “conservatori”. Fatta salva la buona fede, non si può però non notare come il loro modo di pensare ibrido — perché solo in parte “bonificato” — li porti contemporaneamente a difendere la libertà di far quello che si vuole e l’ordine sociale. Gelosi custodi dell’individualismo più esasperato, che è lo stigma di questa temperie spirituale e culturale, si logorano nell’ininterrotto sforzo di conciliare i diritti delle minoranze — almeno di “certe” minoranze — con i diritti delle maggioranze.

E la latitanza di posizioni esplicitamente conservatrici ha come effetto che di esse finiscano per appropriarsi forze politiche e ideologiche ambigue, che stanno oggi realmente mettendo il cappello su un numero inverosimile di istanze classicamente patrimonio della conservazione: dal federalismo, che devia verso rischiose prospettive secessionistiche — vi immaginate una “Padania libera” alle prese con Bruxelles? — la reale esigenza di un minor peso e accentramento del potere, al delicato nodo dell’immigrazione, affrontato con radicalismo oltranzista, al Risorgimento, per la cui revisione ci si schiera maldestramente a battaglia con le asce e con le lance e, per di più, quando la battaglia è finita ed è stata persa, fino alla pretesa di difendere la liturgia latina, senza porsi troppi problemi di ecclesialità. Simili “disinvolte” prese di posizione si traducono sovente in altrettanti ostacoli per chi vuole invece combattere efficacemente e prudentemente — il che non vuol dire cautamente, ma razionalmente — sul fronte delle autonomie, dell’immigrazione, del Risorgimento e, al limite, della Messa in latino.

Capisco che il problema oggi è ancora in larga misura quello di uscire dal “socialismo reale” che in forma soft non sembri una terminologia esagerata: è un fatto che la sfera pubblica tuttora incida sulla società italiana in percentuali da regime collettivista... si è instaurato in Italia con il fascismo e con la Prima Repubblica e che, quindi, l’anticonformista, l’uomo politico e l’imprenditore “vincente” sia il liberale e il liberista. Comprendo altresì che la situazione in cui il Paese versa non si è originata ieri e che l’intrico dei pesi e dei contrappesi di cui è fatta la vita di uno Stato moderno, che per di più “insiste” su una nazione civile antica e complessa come la nostra, impone moderazione.

Ma la moderazione deve trovar spazio nella prassi, sul piano dell’azione, non su quello delle idee. Il principio di cautela, la tesi del bene concreto possibile, il modus operandi mediatorio devono orientare l’agire. Mentre i princìpi e le idee devono restare nitidi, forti e invariabili: se così non è, ogni mediazione rischia di scivolare nel compromesso, nel senso più deteriore del termine.

So what? che fare, dunque? Chi scrive non è in grado di porre in atto neppure per un centesimo — se non uti singulus — alcuna contromisura pratica alle carenze che ha denunciato. Un po’ come un cane da guardia, può solo abbaiare, cioè sollevare questioni, segnalare debolezze ed errori di percorso, indicare i principi e le mete da perseguire per attuare il bene comune nel frangente concreto.

Solo se qualcuno delle élite, attuali o potenziali, del Paese si sobbarcherà il compito di animare un movimento di opinione che porti a forgiare strumenti per agire nella politica e negli ambiti dove si prendono le decisioni che contano, allora si potrà pensare d’invertire un trend oggi rovinoso.

E se è vero — come è vero ed è ormai esperienza di tutti, non solo dei sociologi — che l’Italia è una società “coriandolizzata” — coriandoli in verità prodotti anche dal carnevale permanente, in cui sembra vivere un numero non esiguo di nostri connazionali —, allora occorre ricominciare da capo, riprendere a elaborare quel collante in grado di rimettere insieme i pezzi, a secernere quel mastice con cui ritessere la tela strappata, a rifondere quella calamita con la quale soltanto si può tornare a orientare il pulviscolo, il che equivale a rifondare una cultura in piena armonia con le radici storiche del nostro amato Paese.

Oscar Sanguinetti