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INDICE DEL N. 1


R E C E N S I O N I
anno I, n. 1, settembre-ottobre 2009

“ Pro captu lectoris habent sua fata libelli ”
Terenziano Mauro (II sec.)
[“Il destino di un libro dipende da chi lo legge”]

Pavan K. Varma, Dentro l'India. Potere, ricchezza, tecnologia, nazionalismo, trad. it., Lindau, Torino 2008, 321 pp.

Nel XXI secolo, in forza dell’enorme crescita demografica, un uomo su sei sarà indiano. L’India è la più grande democrazia del pianeta, è una potenza nucleare, è all’avanguardia nell’informatica, è prossima a diventare un gigante economico ed è molto vicina a costituire il secondo mercato globale con oltre mezzo miliardo di consumatori.

Eppure almeno duecento milioni di indiani rimangono poveri. Il tasso di analfabetismo è alto, la violenza è diffusa, la corruzione endemica. Le spose sono ancora torturate e bruciate vive per questioni di dote o di (presunta) infedeltà. Capita che le persone di servizio vengano picchiate a morte e che si sevizino i bambini per propiziarsi le divinità indù. Il sistema delle caste conserva molto del suo potere e tutta la sua brutalità.

Come è possibile conciliare queste due immagini dell’India di oggi, tanto in conflitto tra loro?

A questo interrogativo prova a rispondere Dentro l’India, il volume di Pavan Varma edito in Italia da Lindau nel 2008. Forte di una straordinaria conoscenza del proprio Paese, richiamandosi a fonti disparate e illuminando la sua analisi con aneddoti eloquenti, Pavan Varma — definito da The Guardian come uno degli scrittori più perspicaci di questi anni — compie uno studio acuto della personalità indiana (dal di «dentro», come recita il titolo) e della cultura che l’ha creata, giungendo a conclusioni sorprendenti circa i paradossi e le contraddizioni che caratterizzano le inclinazioni dei suoi compatrioti verso questioni come il potere, la ricchezza e la spiritualità. Varma non è uno scrittore qualsiasi. Diplomatico indiano con incarichi di prestigio anche presso l’Onu, è stato assistente per la comunicazione del Presidente della Repubblica Indiana, nonché portavoce ufficiale del Ministero degli Esteri.

Dunque le sue affermazioni risultano assolutamente originali e puntuali, anche quando vanno controcorrente, lasciando il lettore costernato. è il caso, per esempio, del passaggio in cui tratteggia l’egocentrismo del carattere indiano. Tale egocentrismo «[...] è più che mai evidente nella sorprendente tolleranza con cui gli indiani guardano all’ingiustizia, alle condizioni disumane e alle sofferenze altrui. È un popolo di natura pragmatica e amorale. Nell’induismo, del resto, il concetto di peccato originale non esiste: in determinati contesti è giustificata qualsiasi azione e di norma gli déi sono corrotti. E anche tra gli uomini la corruzione si è diffusa in maniera endemica proprio perché, fin quando porta ai risultati sperati, non vi si vede nulla di realmente abietto».

Che cosa resta allora del rinomato spiritualismo non violento indiano? Ben poco; per Varma, anzi, si tratta più di un cliché occidentale che non di una precisa realtà storica: «Sotto la superficie di un’India tradizionalmente ritenuta non violenta giace un potenziale di violenza latente che non dovrebbe mai essere sottovalutato. Gandhi, l’uomo che dell’ahimsa aveva fatto il suo credo, fu ucciso a sangue freddo da un indù. Il corpo di Indira Gandhi fu crivellato di pallottole da due sikh che si erano finti guardie del corpo. E nei tumulti che seguirono la folla diede la caccia ai sikh e li arse vivi. L’evidenza mostra come negli scontri interni sia gli indù che i musulmani siano totalmente privi di scrupoli». Anche se il libro non ne tratta, viene spontanea in proposito la riflessione sulle gravi violenze subìte dai cristiani indiani ad opera degli estremisti indù.

Gli stereotipi occidentali sull’India vanno quindi decisamente stretti se si vuole guardare sino in fondo la realtà delle cose: «Gli indù non sono tanto non violenti quanto estremamente pratici nel capire i limiti della violenza. Essi sono ben disposti a evitare la violenza se questo garantisce loro un obiettivo molto più importante: la sopravvivenza. La loro riluttanza a mostrarsi aggressivi nei confronti di una potenza superiore, preferendo una coesistenza meschina a un annientamento suicida, e la loro storica “tolleranza” delle altre religioni, in particolare se spalleggiate da forze militari superiori, sono da intendersi in questo contesto» (p. 23). Insomma normalmente l’induista è calcolatore, sia nelle cose temporali che in quelle spirituali, perché, spiega Pavan Varma, quando il devoto indù prega, lo fa per raggiungere il successo in questo mondo. A tal fine è pronto a offrire all’Onnipotente anche dei doni materiali, e se una divinità non è troppo ben disposta nei suoi confronti, non c’è che da scegliere tra tante altre (cfr. p. 100). L’induista è anche piuttosto indolente con chi è più forte di lui. Ciò si rivela soprattutto a livello istituzionale: la recente storia dei rapporti bilaterali con Pakistan e Cina — i due ingombranti vicini — stanno a dimostrare che l’India interviene solo se messa con le spalle al muro. Così il terrorismo di matrice marxista — i gruppi “naxaliti” maoisti — e quello di matrice islamica di derivazione pakistana non sempre nel corso degli anni — racconta Varma — sono stati fronteggiati con il necessario vigore.

Tratteggiati i caratteri predominanti dello spirito indiano, che per taluni aspetti accomuna sia gli induisti che i musulmani con i loro 120 milioni di fedeli rappresentano il 13% della popolazione, costituendo la più popolosa comunità islamica del mondo, seconda solo all’Indonesia , Pavan Varma esamina anche le prospettive future, fornendo indicatori significativi di quello che è il probabile destino di una nazione di un miliardo di persone, e spiega che cosa può davvero servire agli indiani e che cosa essi hanno da offrire al mondo. Quali allora le novità più significative?

Anche se ci si continua a sposare all’interno della medesima casta, oggi si assiste ad una lenta ma percettibile erosione delle gerarchie sociali, in passato considerate sacrosante. In realtà gli indiani continuano a essere molto attenti alle gerarchie, e la divisione in caste influenza ancora profondamente la vita della comunità. Ma al gradino più basso della scala sociale i quieti oppressi non sono mai stati così irrequieti, e la loro aspirazione a guadagnarsi una fetta più grande della torta nazionale oggi non può più essere soppressa né camuffata… Gli indiani però hanno dimostrato di aver compreso — lo evidenziano anche i risultati delle ultime competizioni elettorali — come non sia lo statalismo socialista — o, peggio ancora, quello marxista — il toccasana per raggiungere una migliore giustizia sociale: «[...] se l’era socialista, per quanto non del tutto improduttiva, si è rivelata antitetica a quello che è il vero talento degli indiani, la sua fine ha liberato nuove energie e nuove aspirazioni, insieme alla sicurezza di sé necessaria per poterle realizzare» (p. 284). Dal 1991 in poi si è assistito a una svolta liberista che non solo prosegue, ma che spinge le nuove generazioni ad una rincorsa continua volta a produrre sempre nuova ricchezza e nuovo aumento del prodotto interno lordo (Pil), in modo che possa avvantaggiarsene un numero crescente di persone. In forza di tale svolta liberista i livelli di povertà sono vertiginosamente calati, così che oggi il problema della fame riguarda meno del 3% della popolazione: «[...] grazie alla voce della democrazia l’India indipendente non ha visto carestie, mentre la Cina, che vanta una produttività agricola più alta, non può dire lo stesso» (p. 290).

Il livello di benessere sta aumentando a livello costante. è uno dei sintomi emblematici dei grandi mutamenti in corso in questo enorme Paese che pure presenta al suo interno mille contraddizioni.

Altro fattore importante per il futuro dell’India è la sua indiscussa ascesa quale potenza informatica a livello mondiale. Per quanto paradossale in un Paese che detiene il maggior numero di analfabeti del pianeta, l’istruzione è sempre stata molto importante per l’élite indiana, e in particolare per i brahmini, che, all’apice della scala sociale, vi vedevano un mezzo per mantenere la propria supremazia… Oggi gli esperti indiani di software — tutti peraltro buoni conoscitori della lingua inglese — sono richiesti a livello globale, e le esportazioni di software dall’India sono paragonate a ciò che le esportazioni di petrolio hanno significato per il mondo arabo. Sia in patria che all’estero — come nella Silicon Valley negli Stati Uniti — ci sono ormai molti benestanti e milionari, e soprattutto tantissimi che lottano per diventare tali: per Pavan Varma il potere e il successo mondano sono le reali leve dell’odierna società indiana, e anche le intime devozioni spirituali induiste spingono alle logiche dell’arrivismo e del profitto individuale.

Violenta ma anche indolente, calcolatrice e talora irrazionale, pragmatica sempre, l’India è caratterizzata dalle contraddizioni più di altri Stati, in quello che giustamente è stato definito un immenso intricato mosaico.

In questo volume sicuramente di grande interesse sociologico e geopolitico, unica nota stonata, a parere di chi scrive, è costituita dalla considerazione finale — sia pure incidentale — in tema di «pillole e preservativi», considerati quale utile rimedio per arginare la crescita demografica e la relativa povertà che ne deriverebbe. Sono ormai ampiamente note, infatti, le ragioni per cui, fra l’una e l’altra, non sussiste una relazione di diretta consequenzialità.

Roberto Cavallo