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INDICE DEL N. 2




R I F L E S S I O N I
anno I, n. 2, novembre-dicembre 2009

Julián Herranz Casado

La democrazia totalitaria

Come ecclesiastico e uomo di diritto sono stato sempre interessato alla nobile figura del Pontefice Benedetto Cajetani [Bonifacio VIII (1230 ca.; 1294-1303)], noto sì per aver celebrato il grande Giubileo del 1300, primo Anno Santo di conversione e di rinnovamento morale, ma notissimo anche nell’ambito dei rapporti tra Stato e Chiesa, tra ordine temporale e ordine spirituale, per la sua famosissima bolla Unam Sanctam del 18 novembre 1302.

Permettetemi di prendere spunto da questo atto di governo bonifaciano, che secondo il parere di molti storici segna l’apice della teologia politica medievale, per riferirmi a un problema che in certo modo lambisce la teologia politica ed è molto attuale oggi in Italia e in altre nazioni: la crisi della giustizia nell’ordinamento giuridico civile in rapporto all’ordine dei valori spirituali. Si tratta di una crisi che sembra si stia verificando non solo a causa dei frequenti conflitti di competenza e invasioni di campo tra i poteri legislativo, giudiziale ed esecutivo, ma anche, e forse primariamente, per il divorzio che si è instaurato progressivamente tra la morale e il diritto positivo, tra l’etica e l’attività legislativa e conseguentemente giurisprudenziale ed esecutiva di governo.

Non c’è alcun dubbio che il fenomeno più positivo della moderna scienza giuridica e delle legislazioni democratiche — specie nelle Costituzioni elaborate dopo i regimi totalitari del secolo scorso — è stato lo sviluppo dottrinale e normativo sui diritti fondamentali dell’uomo, ciò che ha contribuito a mettere al centro della realtà giuridica il suo vero protagonista, che non è lo Stato ma la persona umana, con la sua inalienabile dignità e libertà. Questo progresso normativo — evidenziato nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1947 — ha rappresentato un notevole progresso giuridico, che peraltro si riallaccia alla grande tradizione del diritto classico.

È un fatto paradossale però che, dalla seconda metà del secolo scorso, stia prevalendo nelle leggi ordinarie di non pochi ordinamenti civili il principio giuridico-positivo, frutto del relativismo morale, secondo cui in una società democratica la razionalità delle leggi dipenderebbe soltanto e unicamente da quello che la maggioranza dei voti decide che venga stabilito, permesso o proibito. Siamo così di fronte a quella che è stata giustamente chiamata una deriva “totalitaria” della democrazia. Sono sistemi democratici in cui — come ai tempi dell’assolutismo monarchico — si pretende di attribuire al legislatore, cioè al “popolo sovrano” rappresentato nei parlamenti, un potere illimitato, assoluto: una potestà capace sia di limitare i diritti innati e inalienabili enunciati nella citata Dichiarazione dell’Onu, sia di inventarsi i cosiddetti nuovi diritti, propugnati da confuse ideologie libertarie. Si tratta di ideologie e di presunti diritti contrari al bene comune della società, che le leggi devono sempre tutelare, e — come nel caso della “ideo logia del genere” che propugna una assoluta uguaglianza tra l’uomo e la donna — di teorie che negano la normale e differenziata realtà biologica e caratteriale della persona-uomo e della persona-donna, nonché il grande valore sociale ed educativo del matrimonio e della famiglia come istituzioni naturali. A ragione, parlando al mondo acca demico di una nazione appena uscita dalla dittatura comunista, avvertiva Giovanni Paolo II [(1920; 1978-2005)] che «il rischio dei regimi democratici è di risolversi in un sistema di regole non sufficientemente radicate in quei valori irrinunciabili, perché fondati nell’essenza dell’uomo, che devono essere alla base di ogni convivenza, e che nessuna maggioranza può rinnegare senza provocare funeste conseguenze per l’uomo e per la società [...]. Totalitarismi di opposto segno e democrazie malate hanno sconvolto la storia del nostro secolo»1. Purtroppo è un fatto che in ambedue i casi — totalitarismi del passato e democrazie malate del presente — la razionalità delle leggi non è stata più vincolata alla corrispondenza della norma con la natura umana, con la verità oggettiva sulla dignità dell’uo mo, con i valori morali oggettivi e per manenti che invece il diritto dovrebbe difendere e tutelare, per poter ordinare rettamente i comportamenti sociali, proteggere istituzioni basilari ed evitare il progressivo sviluppo di una società selvaggia.

Ma non possiamo avere una visione negativa o pessimista del futuro. È necessario reagire facendo ricorso alla ragione e alla fede. Direi che è l’ora delle intelligenze libere e serene, soprattutto nel campo della sociologia e dell’antropologia giuridica, oltre che della religione e della spiritualità.

È infatti un dato storico — basta leggere senza pregiudizi perfino il Contratto sociale di [Jean-Jacques] Rousseau [(1712-1778)] — che la società democratica è nata da una filosofia sociale che, nonostante tutti i suoi limiti e debolezze, non metteva affatto in dubbio l’esistenza di una verità oggettiva sulla persona umana e di universali valori morali da rispettare. Democrazia era il modo di eleggere i governanti, di dettare leggi e di decidere, entro determinati limiti, i loro contenuti, di distinguere i tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) e garantirne l’indipendenza, di controllare l’esercizio della funzione pubblica di governo e assicurarne la legalità. Ma era fuori questione che questi parlamenti, questi governanti e questi giudici dovessero rispettare quel patrimonio di civiltà, di verità e di valori morali oggettivi, che era radicato, o comunque si presumeva che dovesse esserlo, nelle coscienze dei cittadini, cristiani o non cristiani. Anzi, il diritto, le leggi e conseguentemente la giurisprudenza e gli atti di governo, avevano anche in questo un altissimo valore pedagogico per il popolo.

Purtroppo, le ideologie libertarie cui accennavamo prima, fondate sul relativismo morale, nel togliere alla democrazia il suo fondamento di principi e di valori oggettivi, hanno sfumato pericolosamente i limiti della razionalità e della legittimità delle leggi. Ciò ha indebolito profondamente l’ordinamento giuridico democratico di fronte alla tentazione di una libertà denaturalizzata: di una libertà, cioè, senza i limiti veramente liberatori della verità oggettiva sulla dignità e i diritti inalienabili dell’uomo e della donna.

La democrazia — disse Giovanni Paolo II — «non implica che tutto si possa votare, che il sistema giuridico dipenda soltanto dalla volontà della maggioranza e che non si possa pretendere la verità nella politica. Al contrario bisogna rifiutare con fermezza la tesi secondo la quale il relativismo e l’agnosticismo sarebbero la migliore base filosofica per una democrazia, visto che quest’ultima per funzionare esigerebbe da parte dei cittadini l’ammettere che sono incapaci di comprendere la verità. [...] Una tale democrazia rischierebbe di trasformarsi nella peggiore delle tirannie»2. E Benedetto XVI ha chiaramente denunciato nell’enciclica Caritas in veritate: «Si assiste oggi a una pesante contraddizione. Mentre, per un verso, si rivendicano presunti diritti, di carattere arbitrario e voluttuario, con la pretesa di vederli riconosciuti e promossi dalle strutture pubbliche, per l’altro verso, vi sono diritti elementari e fondamentali disconosciuti e violati nei confronti di tanta parte dell’umanità»3.

Sono cosciente che a questo punto del nostro discorso qualcuno potrebbe obiettare, valutando le precedenti affermazioni in chiave moralista o clericale: ma non ci si accorge che parlando così si confondono pericolosamente la morale e il diritto? Non ci si accorge che il precetto morale si appella alla coscienza, mentre la norma giuridica riguarda invece i rapporti esterni, la condotta sociale dell’uomo? Non ci si accorge che in tutto questo ragionamento, oltre a detta commistione concettuale, traspare una certa nostalgia della cristianità medievale e del sistema politico giuridico dello Stato confessionale o teocratico, come propugnato sette secoli fa anche nella bolla Unam Sanctam di Bonifacio VIII?

Facciamo notare subito, a scanso di equivoci, un fatto solitamente tralasciato dai sostenitori dell’a gnosticismo e del relativismo morale nel diritto dello Stato aconfessionale: a opporsi alla legislazione permissiva dell’aborto, alle leggi che liberalizzano la droga, che facilitano il dilagare della pornografia, che indeboliscono la famiglia come istituzione naturale, che permettono l’eutanasia, la manipolazione eugenetica dei geni e degli embrioni e altri attentati contro la dignità dell’essere umano, non è soltanto il magistero della Chiesa cattolica, ma anche le dichiarazioni più o meno formali di altre confessioni cristiane e di altre religioni (dall’islam all’ebraismo e non solo queste). Anzi vi si oppongono anche, apertamente oppure con timidezza per il timore di essere subito etichettati come “di destra”, non pochi rappresentanti di quella parte del mondo intellettuale che si dichiara religiosamente indifferente, ma culturalmente umanista. Agiscono così perché sanno benissimo che a opporsi a tali leggi amorali non è soltanto la ragione illuminata dalla fede, ma prima ancora quella che già i classici chiamavano la “retta ragione”, espressione del senso morale originale, capace di distinguere il bene dal male, la verità dall’errore.

Dicano quel che dicano coloro che la negano, è pure un fatto che la legge naturale — scolpita da Dio nel cuore degli uomini — è rimasta nei suoi principi, sostanzialmente inalterata attraverso la storia, anzi è stata un fattore decisivo nello sviluppo civile dei popoli e delle culture. Questa legge — a cui ci si è appellati nei processi contro i crimini nazisti e contro i crimini nell’ex Iugoslavia — non è stata inventata dal cristianesimo né da nessun’altra religione. La Chiesa cattolica si limita a ricordare che «nei suoi precetti principali essa è stata esposta nel Decalogo» e che costituisce «il fondamento necessario alla legge civile, la quale a essa si riallaccia sia con una riflessione che trae le conseguenze dai principi della legge naturale, sia con aggiunte di natura positiva e giuridica»4.

Comunque, non sembra consistente l’eventuale obiezione di commistione concettuale tra morale e diritto. Infatti, è vero che la morale e il diritto sono due scienze diverse, che riguardano l’uomo da prospettive e con finalità differenti. La morale si occupa primariamente del perfezionamento della persona umana: riguarda cioè l’insieme delle esigenze emananti dalla struttura ontologica dell’uomo, in quanto essere creato e dotato di una particolare natura, dignità e finalità. Il diritto, invece, si occupa primariamente dell’ordine sociale: riguarda cioè l’insieme delle strutture che ordinano la comunità civile, la società. Ma se il fatto più rilevante e positivo del progresso della scienza del diritto, dopo le catastrofi socio-politiche del secolo XX, è stato proprio quello di mettere al centro della realtà giuridica il suo vero protagonista, la persona, fondamento e fine della società, è ovvio che il diritto di una sana democrazia deve tenere conto di quale sia la struttura ontologica della persona umana: la sua natura di essere non soltanto animale e istintivo ma intelligente, libero e con una dimensione trascendente e religiosa dello spirito che non può essere ignorata, né mortificata. Altrimenti il diritto — anche se lo si volesse chiamare progressista — sarebbe antinaturale, essenzialmente immorale, strumento di un ordinamento sociale totalitario, nonostante lo si voglia chiamare democratico.

Qui non c’è spazio, in pura onestà scientifica, per il relativismo etico — negare cioè l’esistenza di una verità oggettiva, metafisica ma anche biologica sull’uomo — come non c’è spazio, se si vuole evitare l’abbrutimento della società, per difendere la legittimità di un diritto positivo divorziato dalla morale.

Noi, cittadini del terzo millennio, ci domandiamo oggi qui, nella patria di Bonifacio VIII, il grande e sofferto Pontefice della riconciliazione e della pace: che cosa fare per evitare questo suicidio giuridico — concetto simile a quello dell’aborto legale — della democrazia? E ovvio che questa domanda riguarda non soltanto i politici o i giudici, ma anche i sociologi, gli antropologi, i filosofi del diritto, anzi tutte quelle intelligenze libere e oneste che guardano non senza inquietudine il futuro dell’umanità.

Penso che la risposta non possa essere che questa: bisogna recuperare l’autentico concetto di libertà personale, che non può essere separato dalla verità oggettiva (non soggettiva e relativistica) sulla persona umana; bisogna riallacciare la giustizia alla verità: alla verità sull’uomo e sulla donna; alla verità sull’inizio e sul valore della vita umana; alla verità sull’unico e possibile concetto di tolleranza e di ordine; alla verità infine sullo stesso concetto di legge, che deve sempre tutelare il bene comune della società e non «presunti diritti» personali o di gruppo di «carattere arbitrario o voluttuario». In una parola, alla verità sulla indisponibile dignità della persona umana e sui diritti fondamentali e istituzioni naturali che da questa dignità scaturiscono, che sono preesistenti al concetto stesso di democrazia e precedono la logica di qualsiasi ordinamento giuridico positivo e di qualsiasi potere politico costituito.


Note
* Discorso tenuto dal card. Herranz domenica 25 ottobre 2009 ad Anagni (Frosinone) in occasione della VII edizione del Premio Bonifacio VIII, organizzato dalla locale Accademia Bonifaciana, di cui il porporato è stato insignito; la trascrizione, pressoché integrale, dell’intervento è apparsa su L’Osservatore Romano del 25-10-2009.
(1) Giovanni Paolo II, Discorso al mondo accademico e agli intellettuali, Cappella dell’Università di Vilnius (Lituania), 5 settembre 1993.
(2) Idem, Allocuzione a un gruppo di vescovi in visita ad limina, in L’Osservatore Romano, 2-11-1992.
(3) Benedetto XVI, Enciclica Caritas in veritate, del 29 giugno 2009, n. 43.
(4) Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1955-1959.